mobbing

Mobbing: anche una accusa infondata può concretizzarlo

Rivolgere accuse infondate a un collega è mobbing. Il datore in questi casi, è tenuto al risarcimento del danno per non aver garantito la serenità del dipendente dalle maldicenze degli altri.

L’evoluzione relativa al mobbing sul lavoro

In queste ultimi anni i fattori psico-sociali hanno sempre più assunto grande importanza in tema di sicurezza sul lavoro. Ormai in tutti gli ambiti lavorativi si è cominciato a parlare di mobbing. Questo è stato possibile anche grazie all’evoluzione normativa cui si è assistito negli ultimi anni in tema di sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro.

La giurisprudenza italiana ha affrontato il fenomeno mobbing la prima volta con la sentenza 16 Novembre 1999 del Tribunale di Torino. Seguita poi da una serie di decisioni di merito e di legittimità che hanno confermato la rilevanza del fenomeno nelle espressioni più svariate.

Dagli insulti alla emarginazione, dal demansionamento ai trasferimenti. Dalle esasperate forme di controllo occulte o palesi, al sabotaggio delle attività prodotte. Ancora, dai carichi eccessivi di lavoro ad incarichi difficilmente attuabili, etc.

Ritenendo, per quanto attiene all’elemento psicologico, la sussistenza del dolo generico quale volontà di umiliare, mortificare, deridere, perseguitare l’eventuale vittima. Nonché del dolo specifico qualora l’intendimento sia quello di allontanarla dal posto di lavoro.

Sebbene ormai siano state molte le sentenze a riguardo, a tutt’oggi non esiste una legge che esplicitamente definisca tale fenomeno e disciplini le regole volte alla tutela del lavoratore in tale ambito. Occorre però sottolineare che, in verità, le norme a protezione del lavoratore già esistenti costituiscono un impianto normativo già sufficiente ad approntare ogni forma di garanzia in casi del genere.

La Costituzione italiana contiene principi fondamentali e inderogabili, quali la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35). Nonché il riconoscimento della tutela della salute come diritto dell’individuo (autonomo diritto, primario e assoluto, risarcibile) e fondamentale interesse della società (art. 32). Dunque un vincolo insuperabile per l’iniziativa economica privata, che è libera ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 c. 2).

Le conseguenze

Le conseguenze del mobbing sono diverse e possono essere legate a vari aspetti. Quello principale è sicuramente legato al fato che danneggia il lavoratore.

Infatti causa danni alla sua immagine ed alla sua professionalità. Nonché chiaramente alla salute. Spesso tali danni sono irreversibili e toccano la vita di relazione con la perdita di amicizie e sostegni morali importanti. Casi di mobbing però possono avere conseguenze negative anche da altri punti di vista.

Infatti può essere danneggiata anche la famiglia. Questo grazie al fatto che, questo tipo di fenomeni, può indurre continui litigi e ciò può portare alla dissoluzione del nucleo familiare fino a separazioni o divorzi.

Ancora, danneggia l’azienda. Infatti questo tipo di fenomeno danneggerà anche chi per ignoranza, leggerezza o incapacità, lo mette in atto o permette che avvenga.

Cioè ne colpirà l’efficienza e la produttività, diminuendo la motivazione ed aumenteranno l’assenteismo. Ancora, aumenteranno la conflittualità, gli infortuni e le malattie. Nonché lo scarso interesse e il contenzioso. Tutto ciò creerà un clima negativo.

Infine danneggia anche lo Stato. Infatti l’intera comunità nazionale ne sarà danneggiata. Ciò sia per i disservizi che il mobbing produce, sia perché il Sistema Sanitario Nazionale dovrà sostenere costi per terapie, ricoveri e medicine. Naturalmente aumenteranno anche le spese per gli oneri sociali quali sussidi, pensioni anticipate, mobilità, invalidità, ammortizzatori sociali, ecc.

Gli attori del mobbing

Con il termine mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori. Il lavoratore vittima di mobbing subisce vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.

Il Mobbing è un fenomeno sociale. Non può avvenire da sé, ma è fatto, subito o favorito da esseri umani. Le persone che vi prendono parte ne sono attori indispensabili. Con i loro difetti, le loro idiosincrasie caratteriali, le loro paure.

Il Mobbing è un’azione aggressiva, che vede necessariamente due attori: l’aggressore, o mobber, e la sua vittima, o mobbizzato. In un ufficio, o nei luoghi di lavoro, tuttavia, solo raramente questi due personaggi si trovano da soli l’uno contro l’altro, come in un duello sotto il sole.

Nella stragrande maggioranza dei casi attorno a loro c’è un numero variabile di persone. Queste possono fare da semplice sfondo oppure parteggiare apertamente per una delle due parti. Nel contesto lavorativo possiamo distinguere tipicamente tra mobbing orizzontale e mobbing verticale.

E’ praticamente quasi impossibile che il fenomeno del mobbing rimanga inavvertito da questi cosiddetti “spettatori”. La sua portata è troppo pregnante perché non venga in qualche modo percepito. Conseguentemente a questo, anche gli spettatori del Mobbing ne sono coinvolti. Anche loro sono dunque degli attori, insieme al mobbizzato ed al mobber.

La recente sentenza

Con una delle pochissime pronunce che riconosce il mobbing. La Corte di cassazione con sentenza nr. 27913 del 4 dicembre 2020, ha condannato una Srl a rifondere alla dipendente il danno per le condotte vessatorie degli altri.

Condotte che avevano un esplicito intento persecutorio. Non importa che il capo ufficio non si sia reso protagonista di tali offese e maldicenze perché ha comunque il dovere di garantire un ambiente di lavoro sereno.

Il mobbing sul lavoro

La decisione si radica sul concetto di sicurezza sul lavoro che comprende anche l’esclusione di danni morali. Infatti ecco il principio al quale attingono gli Ermellini per risolvere il caso. La responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende da norme specifiche che possono trovare rilievo anche nel codice penale. Ovvero, nell’ipotesi in cui queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 codice civile.

La quale costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni di ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione. La quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti. Siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

La massima ricavabile dalla sentenza

C’è di più. Per la Cassazione, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla donna. Tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 cc.

La sezione lavoro ha fissato dunque un primo importante punto sul mobbing, spesso perso di vista dai giudici. Il datore deve essere un “garante” a 360 gradi dei suoi lavoratori.

Questo dovere viene sancito espressamente dalla costituzione ove è stato consacrato il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato. In considerazione del fatto che l’attività produttiva è subordinata alla utilità sociale.

Questa va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale. Sia pure generalizzato alla collettività. Quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana. Nonché dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità.

In altre parole, per la Corte, da ciò consegue che la concezione patrimonialistica dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona. Sul rispetto di essa. Sulla sua dignità, sicurezza e salute. Anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa.

Ora la società dovrà rifondere la dipendente, che nel frattempo era stata licenziata, versandole quasi seimila euro per una inabilità temporanea di 90 giorni.