Mobbing sul lavoro: quali prove servono?
In una causa per mobbing sul lavoro, la prova dell’elemento intenzionale e vessatorio del datore di lavoro può essere fornita dal lavoratore anche in base ad aspetti oggettivi. In funzione cioè dei comportamenti tenuti, e su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati.
Lo ha deciso la Corte di cassazione (sezione lavoro, sentenza 23918 del 25 settembre 2019). Similmente, in un contesto di lavoro non contrattualizzato, si è espresso anche il Consiglio di Stato (sezione IV, sentenza 4471 del 1° luglio 2019). Quest’ultimo ha affermato che la prova dell’animus nocendi possa essere soddisfatta dal dipendente anche attraverso presunzioni tratte da elementi riscontrabili.
Mobbing sul lavoro, cos’è?
Il mobbing sul lavoro consiste in un insieme di comportamenti violenti perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore. Altra peculiarità è che sia prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso.
La pratica del mobbing sul luogo di lavoro, consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi. Può trattarsi di violenza psicologica o addirittura vera e propria violenza fisica. Il fine è quello di indurre la vittima di mobbing ad abbandonare il posto di lavoro, anziché ricorrere al licenziamento.
Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro. I continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo. Ancora, l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative o di aggiornamento professionale.
Proseguendo, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata. L’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet).
Le indicazioni del Consiglio di Stato …
Ultimamente si è registrata una apertura della giurisprudenza del tutto in linea con l’accertamento del dolo in materia penale. Tuttavia questa con fatica ha trovato approdo nella giurisprudenza del lavoro, impegnata a dare una connotazione giuridica a un fenomeno non regolato dalla legge. La dimensione di questo aspetto infatti si rapporta a conflitti e sofferenze all’interno del contesto lavorativo ormai note. Sono infatti state studiate ed elaborate dalla scienza medica e quindi in un ambito extra giuridico.
Il rischio di richieste risarcitorie pretestuose, ha messo la giurisprudenza sulla difensiva, dando al lavoratore l’onere non solo della prova dell’elemento “oggettivo” di casi di mobbing sul lavoro. Riscontrabile cioè nella pluralità di azioni dirette alla sua umiliazione personale e professionale.
Sia illecite, quale il demansionamento, irrogazione di sanzioni disciplinari infondate o controlli non giustificati o ossessivi. Ma anche lecite, attuate attraverso omissioni, quali la mancanza di valorizzazione del dipendente, o lo svuotamento delle attività assegnate, o l’eccessivo carico di lavoro. Oltre a ciò c’è poi da dimostrare anche l’elemento soggettivo persecutorio tenuto dal datore di lavoro con tale comportamento.
… e quelle della giurisprudenza
Elementi entrambi richiesti dalla consolidata giurisprudenza, sebbene relativi alla violazione, di natura contrattuale e non extracontrattuale. Ciò con il conseguente termine decennale di prescrizione. Questo riguardo all’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore gravante sul superiore gerarchico in base all’articolo 2087 del Codice civile.
Ricorda infatti il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, che la ricostruzione del mobbing in ambiente di lavoro richiede alla vittima di provare il dolo del mobber. Seppur facendosi valere la responsabilità contrattuale, “essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale”.
Questa circostanza, però, si può rivelare una probatio diabolica, con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria, e, forse, una giustizia negata. Per questo, appare più che giustificato da parte della giurisprudenza il ricorso a elementi oggettivi di natura presuntiva.
Da questi infatti è possibile desumere l’intendo della persecuzione psicologica, la cui valutazione è affidata alla prudente valutazione del giudice di merito. Si veda da ultimo la sentenza della Corte di appello di Roma del 24 settembre 2019. Questa ha confermato gli elementi sintomatici del mobbing sul lavoro, già riconosciuti dal Tribunale.
Sotto il profilo della supervisione del giudice di legittimità non è ritenuto sufficiente limitarsi ad una sola affermazione circostanziata. Questo ai fini della dimostrazione di intenti persecutori protratti nel tempo nei confronti del lavoratore. Cioè “dedurre che mentre ai colleghi fu consentito di proseguire con la modalità di tele lavoro notturno, solo a lei (una dipendente) fu impedito” (Cassazione, sent. 23918 del 2019).
Come dimostrare il mobbing sul lavoro
Uno dei punti dolenti della materia, come abbiamo avuto modo di vedere, è dunque quello dimostrare di subire il mobbing sul lavoro. Appare quindi problematica la tutela penale dal mobbing.
Non vi sono infatti nel nostro ordinamento, norme che sanzionano atteggiamenti di vessazione morale in quanto tali. Si è assistito al proliferare di nuove proposte anche in sede legislativa. Ciò proprio a causa delle difficoltà che l’interprete incontra nel trovare, nell’attuale normativa, un’efficace tutela penale a favore della vittima di mobbing.
Allo stato attuale la tutela in ambito penalistico non ha concreta praticabilità. Almeno fino a che non si dimostri in modo certo che il lavoratore mobbizzato si sia ammalato di mobbing.
Vale a dire che la tutela nell’ambito delle lesioni non è di facile applicazione pratica. Nell’ipotesi (non rara) in cui si verifichi una lesione psico fisica da mobbing, quale è la norma penale di riferimento? E’ possibile ottenere un risarcimento?
E’ importante, in primis accertare il nesso tra mobbing e danneggiamento della salute. In seguito bisogna accertare se la volontà del soggetto agente (il datore di lavoro o il collega) sia frutto di un dolo. Cioè vi sia coscienza e volontà della condotta e dell’evento offensivo. In alternativa si tratta di una colpa, cioè vi è coscienza e volontà della condotta ma non dell’evento, che si realizza invece contro l’intenzione.
…e in ambito civile?
Le vittime di mobbing trovano tipicamente la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento.
Esse potranno, in altre parole, citare in giudizio il loro mobber dinanzi al giudice civile. Questo al fine di vederne accertata la responsabilità per i danni che ha cagionato nei loro confronti e ottenerne la condanna al risarcimento delle sofferenze patite.
A tale proposito, infatti le tipologie di danno che è possibile richiedere in sede civile e per le quali il giudice può disporre il risarcimento sono molteplici. Possono infatti riguardare sia il danno non patrimoniale che il danno patrimoniale.
Il mobbizzato, infatti, può essere risarcito innanzitutto per le sofferenze non patrimoniali subite in conseguenza delle condotte persecutorie, che vanno valutate globalmente. Bisognerà infatti dare rilevanza alla lesione della salute psico-fisica del danneggiato (danno biologico). Alla sofferenza interiore derivante dalle condotte persecutorie (danno morale). Infine anche al peggioramento delle sue condizioni di vita quotidiane (danno esistenziale).
Egli, inoltre, in alcuni casi può essere risarcito anche del danno patrimoniale subito in conseguenza del mobbing e che comporta, in sostanza, un’incidenza negativa sulla sua sfera economica.
Ad esempio, il danno patrimoniale subito dal mobbizzato può consistere nel fatto che ha dovuto sostenere delle spese mediche o per visite specialistiche.
Ciò in conseguenza delle lesioni psico-fisiche derivanti dal mobbing sul lavoro. Ma anche, ad esempio, nel mancato guadagno conseguente alla diminuzione delle sue capacità professionali. Ciò si verifica in tutti i casi in cui il mobbing comporta un’inattività forzata del lavoro. Nonché la sua perdita di chances, il mancato avanzamento di carriera, la compromissione della sua immagine professionale e così via.
La prova in ambito civile
Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing sul lavoro.
Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio.
Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, ad esempio, le critiche continue e immotivate o le molestie.
Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento. Bensì sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo. Cioè ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.
Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. A riguardo si farà riferimento a dichiarazioni testimoniali e a perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.
Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.
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